di Silvia Manzani
Sede di Caviro

Carlo Dalmonte, presidente della cooperativa vitivinicola Caviro, ci parla del nuovo marchio e del valore della sostenibilità.

Rilanciare il vino romagnolo, puntando in particolare ai mercati esteri, senza retrocedere dalle posizioni conquistate su quello nazionale. Sono queste le priorità più urgenti per Carlo Dalmonte, da sei anni presidente di Caviro, il consorzio cooperativo vitivinicolo più grande d’Italia. Nato nel 1966 a Faenza, è oggi composto da 30 cantine sociali e, a loro volta, da 12.500 viticoltori sparsi in 7 Regioni italiane, dal Veneto alla Sicilia: “Negli ultimi sei anni, abbiamo investito 100 milioni di euro, perché crediamo che senza innovazione si vada, inesorabilmente, verso il declino”.

Sono due, in particolare, i progetti in cui Caviro è molto impegnata al momento. Il primo è Leonardo, un nuovo marchio che vuole valorizzare la qualità del vino italiano nel mondo legandolo alla figura di Leonardo Da Vinci. “Leonardo era, come si dice oggi, un vero winemaker – racconta Dalmonte –. Nel testamento, l’unico bene che volle lasciare ai suoi servitori fu la vigna di Milano. Senza dimenticare che trascorse sei mesi in Romagna nel 1502, che è il numero che abbiamo scelto per lanciare una serie di etichette dedicata ai vini dei migliori vigneti romagnoli. Al Vinitaly 2019, dove il progetto è stato presentato, abbiamo anche raccontato il metodo di lavorazione del vino di Leonardo, messo a punto insieme all’enologo Luca Maroni. E a Vinci tutto questo è stato mostrato alle autorità politiche e a una serie di importanti clienti esteri”.

Leonardo è frutto di un approfondito lavoro di analisi e ricerca aziendale, anche sul fronte della comunicazione. “Non lo consideriamo tanto un marchio – specifica il presidente –, quanto una strategia tramite la quale vorremmo veicolare in Italia, ma soprattutto all’estero, un riposizionamento della nostra offerta, con obiettivi di medio-lungo periodo. L’investimento è stato alto, lo dico nella consapevolezza di essere una realtà grande che certi azzardi può permetterseli. In questo senso, qui abbiamo davvero osato”.

A fine maggio, inoltre, nello stabilimento faentino sarà inaugurato l’impianto di biometano che, secondo Dalmonte, conferma la sensibilità di Caviro rispetto ai temi ambientali e della sostenibilità.

“Gli scarti sono per noi una risorsa e sono diventati in questi anni il nostro cavallo di battaglia. I nostri nonni avevano già capito che del grappolo d’uva non si butta via niente e quell’insegnamento coincide con quella che oggi chiamiamo economia circolare.”

Carlo Damonte, presidente da sei anni di Caviro

Ciò che viene recuperato va dall’alcol all’energia, dal compost che torna al vigneto dal quale tutto è partito all’acido tartarico, dai polifenoli per l’industria farmaceutica al biogas che diventa, poi, biometano: “Vendiamo anche l’anidride carbonica, a dimostrazione che essere sostenibili ha anche un’utilità.

“In generale, da quando sono presidente sento una grande responsabilità: quella di fare in modo che le migliaia di viticoltori che ricavano una parte o la totalità del loro reddito dai risultati che mettiamo a disposizione, possano continuare a farlo. È un obbligo morale”.

Ed è un obbligo, per Dalmonte, anche penetrare con sempre maggior convinzione e incisività alcuni mercati esteri. “Gli Stati Uniti prima di tutto – spiega – perché sono il Paese dove si consuma più vino al mondo. Poi l’estremo Oriente, in particolare la Cina dove il vino italiano non sta registrando, purtroppo, un trend soddisfacente. Ma pensiamo anche al Regno Unito, che praticamente non produce vino e non ha restrizioni commerciali particolari, sempre tenendo le dita incrociate rispetto alla Brexit”. E ci sono, nelle mire di Caviro, anche Canada, Russia, Germania.

“Allo stesso tempo – ci tiene a precisare – non dobbiamo perdere un millimetro di spazio sul mercato domestico, dove con il nostro Tavernello siamo leader indiscussi. Dire Tavernello, oggi, significa definire il vino da tavola. Ecco perché quando sento commenti sbeffeggianti, come se si trattasse di un prodotto di scarsa qualità, sorrido. Chi sminuisce il Tavernello, che può davvero essere considerato una superstar, non conosce, probabilmente, la sua forza né il suo posizionamento”.

E di grande, a Caviro, c’è anche l’ultimo fatturato. “Il 2018 è stato davvero un anno da record – spiega Dalmonte –, con 338 milioni di euro contro i 315 dell’anno precedente. Non era mai successo: abbiamo chiuso un bilancio che ci lascia molto soddisfatti, grazie al raggiungimento degli obiettivi che ci eravamo prefissati. Sono anche aumentati, di qualche unità, i nostri dipendenti degli stabilimenti, che ammontano a 550 persone tra Faenza, Forlì, Savignano sul Panaro e Treviso. Va detto che non è solo merito nostro: grazie al Programma di Sviluppo Rurale e ad altri strumenti, abbiamo potuto investire di recente oltre 6 milioni di euro per aumentare la capacità produttiva dello stabilimento di Forlì, in cui è possibile imbottigliare più velocemente sia il vino in vetro che quello in brik. Di certo non ci piace fermarci, preferiamo al contrario guardare in avanti e pensare in grande. Il nostro ruolo è essere da traino, il nostro sogno è essere i protagonisti del rilancio del vino italiano e in particolare romagnolo, al quale dobbiamo ridare il posto che merita”. In questa direzione va anche Bolé, una società controllata a metà da Caviro e a metà dal consorzio Cevico per valorizzare il Trebbiano e conquistare il settore delle bollicine. Novebolle Bolé è il primo spumante nato dai due colossi grazie anche all’impegno del Consorzio Vini di Romagna. Per vedere i frutti concreti dell’operazione serve, secondo Dalmonte, ancora un po’ di tempo.

Uve italiane per il vino della cantina d'Italia

Eccellenza
AGROALIMENTARE

La Provincia di Ravenna è ricca di aziende dell’industria agroalimentare. Basti pensare a Unigrà, con sede a Conselice, che opera nel settore della trasformazione e vendita di oli e grassi alimentari, margarine e semilavorati destinati alla produzione alimentare, in particolare dolciaria. Nata nel 1972, l’azienda fondata da Luciano Martini ha sviluppato nel tempo la propria missione di realizzare materie prime di alta qualità e prodotti finiti di alta qualità per tutti i canali del settore: industriale, artigianale, vendita al dettaglio e hotellerie-restaurant-café.

Il successo dell’azienda è correlato anche a investimenti continui nelle più avanzate tecnologie produttive e alla grande attenzione verso le esigenze dei clienti e dei mercati. Oggi Unigrà è una realtà internazionale con ricavi per quasi 600 milioni di euro, che esporta circa il 40% del suo volume d’affari grazie a 14 consociate estere, 2 branch e una numerosa rete di distributori e importatori in più di 100 Paesi nel mondo.

La gestione dell’azienda è affidata ancora oggi al fondatore Luciano Martini, presidente del consiglio di amministrazione, e al figlio Gian Maria Martini.

Quando si pensa a uno dei prodotti tipici del territorio, la piadina, impossibile non pensare alla Orva di Bagnacavallo che produce anche bruschette, bauletti, focacce, pagnotte e tramezzini. L’azienda nata nel 1979 e presieduta da Luigi Bravi, da sempre mira a distinguersi non solo per la qualità del prodotto ma anche per il modo in cui viene realizzato, facendo quindi attenzione all’uomo, all’ambiente e alla storia. L’Orva è oggi, a tutti gli effetti, una realtà d’eccellenza e d’avanguardia tecnologica nel settore della panificazione. Da segnalare la realizzazione, nel 2017, di un nuovo stabilimento da 32 milioni di euro che si sviluppa su una superficie di 20.000 mq, comportando l’assunzione di 50 persone che portano a oltre 200 il numero complessivo di addetti.

Orva produce circa 400.000 piadine al giorno, senza dimenticare i 200 milioni di confezioni di prodotto finito nell’arco di un anno, nonché svariate altre tonnellate di pane confezionato, in cassetta e biologico. Quantità che fanno dell’azienda di Bagnacavallo il secondo produttore italiano. (R.B.)

Continua a leggere Ravenna IN Magazine 02/2019!

Sfoglia la rivista